Prima di affrontare il tema cibo e bambini a scuola è necessario fare una premessa: il cibo non è solo ‘cibo’, ma ha molti implicazioni emotive. E’ necessario tenere presente che il momento del pasto è carico, fisiologicamente, di aspetti emotivi e di significato rispetto a chi eroga il nutrimento e a chi lo riceve. Il cibo fin dai primi giorni di vita è nutrimento anche della mente e veicola, anche per il contesto relazionale in cui viene fornito, intense emozioni favorevoli o sfavorevoli. E’ quindi è evidente che tutto quello che sembra di contorno, in realtà, non lo è.
Una premessa doverosa della dott.ssa Marina Bertolotti, psicologa, Responsabile di Psicologia Clinica Area Pediatrica, presso AOU Città della Salute e della Scienza di Torino e professore incaricato di Psicologia Clinica presso l’Università di Torino, a cui abbiamo chiesto lumi per aiutare genitori e insegnanti a capire le implicazioni psicologiche ed emotive dei bambini in relazione al momento del pasto a scuola.Detto questo, come affrontiamo l’annosa questione: ‘mio figlio non mangia niente in mensa!’?
Il problema delle mense è universale. A scuola, ma anche in ospedale, da sempre, la qualità è bassa. Ma a scuola c’è un elemento in più da considerare: il gusto dei bambini. E’ necessario stabilire un equilibrio tra quello che deve essere uno stile di vita sano, a fronte di ‘quintalate’ di merendine che i bambini mangiano, e un’alimentazione buona e sana che corrisponda al loro gusto. Le faccio un esempio: le zucchine bollite proposte in mensa non possono certo incontrare il favore dei bambini che inevitabilmente le scarteranno.
Questo va detto se affrontiamo la questione da un punto di vista generale. Poi va considerato il tema della specificità emotiva di ciascuno. Ogni bambino ha un gusto distinto, anche perché ad esso si associano implicazioni diverse. Ci sono bambini che cercano in mensa la continuità del cibo consumato in famiglia e invece altri che mangiano in mensa alimenti che a casa non mangiano. Oppure bambini che in mensa non mangiano perché sono tutti cibi nuovi. Se non teniamo conto di chi ha problemi organici e l’obiettività della qualità del cibo in mensa, la questione si sposta verso l’approccio del bambino nei confronti del cibo sul piano emotivo: la paura del nuovo, il significato che viene attribuito al nutrimento, la continuità o discontinuità rispetto alla famiglia.
I bambini nascono con la volontà di mangiare tutto?
La maggioranza tende ad essere conservatore piuttosto che assaggiare cose che già non piacciano visivamente. E’ frequente anche l’atteggiamento di sospetto in relazione all’introiettare qualcosa di nuovo.
Come si scardina questa resistenza rispetto al nuovo? C’è un modo?
l ruolo dell’insegnante che è accattivante nell’assaggio di un nuovo piatto, che è capace di spiegare ai bambini come sia importante assimilare nutrimenti diversi, la sollecitazione della curiosità sono aspetti molto importanti che promuovono almeno l’assaggio e un atteggiamento più positivo verso il nuovo piatto. Se invece l’insegnante guarda la nuova pietanza con sospetto, questo non aiuta. E’ tutta una questione di sfide ed equilibri. Da una parte non va bene che le insegnanti obblighino i bambini a mangiare, come non va bene neanche un atteggiamento indifferente o negativo rispetto al nuovo piatto. Tuttavia quando siamo convinti della bontà alimentare di una pietanza dobbiamo essere fermi a sollecitare i bambini nell’assaggio. L’insegnante può avere un ruolo nel rendere l’assaggio accattivante, ma non deve avere un approccio impositivo per obbligare all’assaggio.
In questi mesi vediamo molta conflittualità intorno alla mensa anche sul piano culturale ed etnico. Ci sono state polemiche sulla sostituzione del maiale con il cous cous e pollo che non interpreta esattamente la cultura culinaria italiana e che ha creato fratture tra scuola, ASL e famiglie. Fatti che non aiutano a creare un clima sereno intorno al momento del pasto a scuola. Come è possibile ridurre questa conflittualità?
Io credo che sia auspicabile che si crei un’alleanza tra le istituzioni, quella genitoriali e quella educativa. Se non siamo prima noi adulti a comprendere quali sono i valori che vanno al di là del ‘cous cous e pollo al posto del maiale’ e non si va alla scoperta di nuove culture, nuovi saperi e gusti, non trasmettiamo ai bambini l’importanza di farlo. Se non siamo noi adulti a credere che sia importante spingere i bambini verso una vera integrazione, che passa anche attraverso il cibo, non li aiutiamo a vivere quello che sarà il loro futuro multiculturale. Se ad un bambino italiano viene detto dalla famiglia che il cous cous che trova in mensa ‘fa schifo’ è evidente che ci sarà ostilità rispetto quel piatto anche da parte dei nostri figli. Mentre invece dobbiamo fare in modo che il tessuto scolastico e familiare s’incontrino.
E il pasto da casa?
Anche il tema del ‘pasto da casa’ non aiuta la costituzione di un ‘patto educativo’ tra scuola e famiglia. A di là delle motivazioni che hanno spinto a questa scelta in varie realtà italiane, che non discuto, è inevitabile che il bambino con il pasto da casa si chiederà ‘perché non mi fanno mangiare in mensa?’ e quindi ci sarà una fantasia sulla mensa cattiva della scuola e il cibo buono della famiglia e questo può alimentare le conflittualità, ma anche la percezione della ‘scuola’ come fonte di ‘cattivo nutrimento’. Poi bisogna chiedersi perché si è arrivati a questo punto.
Il caso dei bambini stranieri di Lodi che non hanno potuto accedere in mensa per un procedimento burocratico ‘originale’ ha fatto molto rumore e ha suscitato indignazione in tutta Italia. Ma nessuno si è chiesto come possono essersi sentiti i bambini che invece hanno potuto andare in mensa.
I bambini che a Lodi hanno potuto andare in mensa possono aver reagito in maniera diversa: possono essersi interrogati sulla cosa, possono essersi sentiti privilegiati di andare in mensa e poi in colpa rispetto ai bambini che non ci potevano andare, altri possono aver pensato quanto sono fortunati loro che si portano il pasto da casa. Non tutti possono essersi sentiti nello stesso modo. Quello che è certo è che il caso di Lodi è l’esempio estremo di diseducazione, una discriminazione che non aiuta l’integrazione di culture diverse.
L’integrazione invece passa anche attraverso il cibo. Ma ricordiamoci che ci deve essere questa apertura verso il cibo da parte di tutti, nel rispetto dei vincoli religiosi di ciascuno. Così come i bambini italiani devono essere aperti e disponibili ad assaggiare il cous cous e l’hummus di ceci, gli stranieri devono essere disponibili ad assaggiare anche i piatti della nostra tradizione gastronomica.